Rientro dall’ospedale dove sono stato a portare l’Unzione dei Malati ad una giovane mamma, quarantenne, semicosciente, il respiro faticoso, rotto in due, segno di qualcosa di grave che si sta passando in un corpo oramai alla fine delle proprie forze. L’infermiere cura la malaria con una potente iniezione, poichè gli esami hanno dato esito positivo, ma è chiaro che c’è molto di più e peggio che la malaria. La preghiera che facciamo è affidamento a Dio nella consapevolezza che umanamente, con i mezzi a disposizione sul posto “tutto è stato fatto”, o meglio “non c’è più nulla da fare”. La preghiera è l’ultimo risvolto della speranza e nello stesso tempo l’ultima carità che si può fare al povero malato accompagnandolo in quello che sembra davvero essere l’ultimo viaggio.
Nel padiglione dell’ospedale dove sono trovo il bambino malato, lo zio e la mamma che tiene tra le braccia l’ultimo suo nato di circa un anno d’età. Mentre ascolto la loro storia si mischiano sentimenti di biasimo e di comprensione, di incredulità e di compassione.
Quanta incoscienza,
quanta povertà, economica e culturale, quante poche alternative. L’amore non
manca. E’ la prima volta che li vedo tutti insieme.
La dedizione dello zio mi
ha stupito fin dall’inizio e continua a stupirmi. Il bimbo malato lentamente si
sta riprendendo anche se ci vorrà ancora molto tempo. E’ una famiglia un pò
strana: fratello, sorella e i sei bimbi di lei. Quei bimbi che sono il loro
peso e la loro ricchezza. Difficilmente potranno essere curati quando saranno
malati, più difficilmente ancora potranno andare a scuola. L’unica loro
ricchezza sarà la loro famiglia.