sabato 23 dicembre 2017

PRENDERSI CURA



Un pò di “fresche vacanze” non guastano  - sono in Italia - e l’adattamento necessario non è stato subito facile poichè i 30 gradi quasi costanti di Babonde ed i tendenti allo 0 nell’inverno della pianura padana fanno uno scarto considerevole. Il clima rigido con una spruzzata di neve mi ha accolto come è normale che sia. Il ritorno in famiglia, le visite ed i saluti ai familiari, ai confratelli, agli amici... rivedersi è necessario e fa bene, recuperare i sorrisi, le storie, le vicende belle, insieme anche alle preoccupazioni e ai cambiamenti fatti o subiti. 

Bimbi che nascono e crescono tra le giovani coppie, ragazzi di una volta, capelli che imbiancano nelle generazioni che sono le nostre. Alcuni dialoghi necessari, altri interessanti, progetti, disillusioni insieme a conquiste, si fanno domande, ci si informa reciprocamente. Tra le altre spesso me ne vengono rivolte due, ricorrenti, ma che scontate non sono: “Cosa trovi di cambiato in Italia dopo questi anni?” e  “Che cos’è che è cambiato in Africa da quando sei partito?”.





Sorvolo un pò sulle domande, giusto per descrivere quelle che sono solo le mie “impressioni”. Riguardo alla prima domanda sembra che non molto sia cambiato nel panorama sociale, la stessa confusione e lo stesso sentimento di delusione rispetto ad un certo “degrado” delle idee e delle proposte politiche, lo stesso senso di insicurezza a livello economico, la stessa paura, dello straniero e del differente, una paura senz’altro cresciuta,. Noto anche la difficoltà sempre più accentuata di incontrare le persone gratuitamente, fuori casa, per strada, nei cortili. Magari appunto il clima invernale accentua questo mio sentire, ma sembra che gli abitacoli delle automobili in cui tutti sono rinchiusi nei propri viaggi, con i minuti contati senza spreco alcuno, le comunicazioni fatte grazie al solo elettronico o “virtuale”, gli appuntamenti serrati, ebbene abbiano come effetto di ridurre la possibilità del gratutito, del non programmato e di aumentare invece il disagio di fronte all’incontro imprevisto, casuale, che genera novità. E’ vero, tutto questo non toglie il desiderio e la necessità del fare comunità, dello stringere i legami, ma sembra quasi che le famiglie si chiudano in se stesse e le comunità frequentate facciano lo stesso accontentandosi di quanto è già stato costruito o sperimentato. 
La vita di fede da parte sua si fragilizza ed è vissuta sempre più privatamente, individualmente.  
Sommerso e poco appariscente si intuisce e si vede un mare di solidarietà e di bene, di gentilezza e di pazienza, fatto di tante persone e piccoli gruppi, di azioni private e di decisioni del “pubblico”, di braccia aperte e di azioni concrete che rassicurano i cuori. Nel disorientamento e nelle trasformazioni veloci della società non si è smesso di cercare e di nuovamente ricercare risposte di fede e di comunione, di valori e di bene, di diritti da difendere o da conquistare, di fraternità e di ricchezza da condividere. 

Qui in Italia stiamo nel mondo dei ricchi (7 a/8a potenza mondiale economica) ma tutti si sentono più poveri. Ecco appunto, se parliamo di ricchezza direi che questi anni nelle vicende varie delle bolle e speculazioni bancarie hanno insegnato che non sempre i soldi della pura finanza producono una ricchezza sana, possono essere mal utilizzati, svalutati o semplicemente conservati senza produrre beni o produrre del “bene”. Talenti non trafficati, bloccati dalla paura. Allo stesso modo la ricchezza umana e di fede che è patrimonio di tanti ha bisogno di non essere semplicemente conservata o difesa, ma condivisa. La fede se è condivisa si rafforza e così vale per ogni apertura.
 

Se ora veniamo alla seconda questione che spesso mi viene posta - cos’è che è cambiato in Africa da quando sono partito - mi sembra di cogliere nel sottofondo della domanda il desiderio di capire se la mia presenza in missione ha creato un cambiamento evidente, un sostanzioso miglioramento delle condizioni di vita delle comunità incontrate, qualcosa per cui è valsa la pena partire per il Congo e varrà la pena ripartire.    


Il missionario deve sempre fare attenzione a non cadere nella trappola psicologica di considerarsi in qualche modo il “salvatore” o la giusta “soluzione” delle situazioni che gli si presentano, equipaggiato di un di “più di sapere”, di maggiore forza economica, di un surplus di tecnica... Ma questo pericolo che è nel missionario può dimorare anche nei pensieri di chi pone la questione il quale pensa che vale la pena essere in missione solo se qualche cosa di risolutivo si potrà realizzare. Nel nostro animo umano ci compiaciamo di poter porre noi dei gesti o delle azioni che pensiamo essere finalmente “risolutive”. E’ vero, abbiamo bisogno di saper “generare”, noi, qualcosa. Abbiamo bisogno di sapere che noi abbiamo fatto e che senza di noi non sarebbe stato fatto. 
Certo “generiamo”, ma attenzione, mai da soli. Certo diamo alla luce, e poi ci stupiamo che quel qualcosa o colui a cui abbiamo dato vita cammina da sé, anche senza di noi, e domani sarà certamente più veloce senza di noi. Certo dobbiamo fare qualcosa di importante della nostra vita e con la nostra vita, consapevoli tuttavia che quanto facciamo rimane sempre goccia che si aggiunge all’acqua del mare, pur composta dall’insieme di tali gocce. Molto più banalmente: tutti importanti nessuno indispensabile.

Vale la pena ricordare qui come ci “riposiziona” la spiritualità cristiana e la nostra fede poiché senza il Signore “non potete fare nulla” (Gv 15,5) e, con molta umiltà e realismo, è ben giusto dichiararci “servi inutili” (Lc 17,10).
E’ allora vero che in questi anni abbiamo potuto aiutare efficacemente tanti poveri ma “i poveri li avrete sempre con voi”  (Mt 26,1).  Ed è ugualmente vero che ora c’è una bella scuola a Babonde, ma manca ancora a Yambenda, Gbunzunzu, Bavamabutu, Nitoni ed in mille altri posti. E’ vero che nell’ospedale abbiamo un ecografo e qualche altro materiale nuovo, ma molto di più è quello che manca nell’ospedale di Babonde ed altrove. 

E’ancora vero che per curarsi occorre sempre pagare quei soldi che troppo spesso non ci sono ed è vero che ancora troppo numerosi sono i bimbi malnutriti. Qualcuno potrà attingere acqua potabile da sorgenti risistemate mentre altri, senza, continueranno a combattere contro quei parassiti e amebe di cui si conoscono bene i nomi ma che non si riesce a sconfiggere. 

Di fronte alla domanda di cosa sia cambiato in questi anni possiamo dire che con l’aiuto di tanti abbiamo realizzato azioni di bene, che sono stati costruiti ponti ed accesi fuochi di speranza, che molti hanno studiato, molti sono stati “salvati”, guariti, anche se necessariamente torneranno ad ammalarsi. Possiamo allora dire che la cosa più importante è stata, è e sarà il “prenderci cura”. Farci vicini o “prossimo” senza pretesa di avere per ogni cosa la soluzione risolutiva. Capaci di ascolto, sapendo imparare, dare e ricevere. 
Prendersi cura gli uni degli altri, consapevoli dei limiti di tutte le azioni e della nostra natura, che sono anche i limiti di questo grande e “dis-graziato” paese che è il Congo.
Insieme al limite abbiamo anche coscienza delle risorse perchè con gli aiuti ed con le azioni di bene abbiamo potuto portare l’ “Aiuto” ed il “Bene” che è il Cristo, lui che vince la dis-grazia, ogni dis-grazia con la sua Grazia ed è capace di creare “la soluzione”. 

Nelle lunghe liturgie africane (due/tre ore e mezza) è un gruppo di bimbe, chiamate in francese joyeuses (gioiose),  che aprono la processione di ingresso. Il ritmo della loro danza si può sintetizzare con “due passi avanti ed uno indietro”. A loro modo anch’esse contribuiscono alla lunghezza della liturgia. Tuttavia, seppur lentamente, si arriva all’altare! Musica e danza sono troppo importanti nell’espressione dello spirito di fede dei credenti in Africa. Lentamente ma gioiosamente si avanza. 
Due passi avanti ed uno indietro è il simbolo di questo paese e di tutto quanto si realizza in esso e forse nel mondo intero. 
In questi anni di Congo il numero dei missionari che vi operano continua a diminuire, il numero delle vocazioni locali al contrario non ha cessato di aumentare. E’ anche questa una ragione che mi permette di vivere il natale qui in Italia invece che a Babonde: altri confratelli mi stanno sostituendo. Non mancano i missionari africani già sparsi per il mondo. Sarà loro l’evangelizzazione del continente asiatico? Chissà quante cose nuove ancora nasceranno. 

Senza avere soluzioni in tasca prendendiamoci cura gli uni degli altri, come in questi giorni tutti sembrano prendersi cura di un bimbo-Gesù, sapendo molto bene che, al contrario, è invece lui a prendersi cura di tutti noi: Buon Natale a tutti.